Dopo una fase di test durata un paio di mesi la piattaforma crowdsourcing del gruppo Reply, Starbytes, punta a rivoluzionare il mercato dell’acquisto/fornitura di servizi creativi, inglobando la startup torinese IamaSource, attraverso una sorta di market place nel quale far incontrare creativi e clienti.
Per creativi intendo copywriter, grafici, programmatori app e web: ad oggi, poco meno di 30.000 creativi iscritti al portale, per un totale di circa 160.000 proposte inviate.
Il sistema è semplice: lato fornitore consente di iscriversi e partecipare ai contest pubblicati avendo chiaro il budget in palio ed i tempi di consegna; lato cliente permette di ottenere con un impegno economico molto contenuto una serie di proposte sulla base del brief fornito in maniera rapida e veloce.
I “contest” – di cui è disponibile un brief, una piccola bacheca per chiarimenti e richieste e una finestra di inserimento, possono essere svolti in forma nascosta, in modo cioè che solo il cliente possa vedere le proposte, oppure in chiaro, una modalità che consente a tutti gli iscritti di vedere le proposte.
Ovviamente, il portale è assai più vantaggioso per i clienti che per i creativi, che riescono a raccogliere in un solo contest anche 700 offerte (mi riferisco alle richieste di logo/brand), con una spesa media che si aggira tra i 250 ed i 500 euro.
Di qui alcune considerazioni che mi vengono spontanee, dopo aver osservato per qualche giorno l’andamento del portale.
Nell’epoca della grafica video, e dei miracoli della Suite Adobe,del liberalismo di siti come dafont la creatività visuale è ormai alla portata di chiunque sia in grado di smanettare un poco su un computer: che si tratti di montare il video delle vacanze, di creare un piccolo sito internet, di metter su i biglietti d’invito per una festa in discoteca, grazie a Photoshop, Illustrator, Indesign e Dreamweaver chiunque può provarsi a creare graficamente qualcosa.
Il risultato – e lo si vede in parte delle proposte in chiaro – è che chiunque può di fatto pensare di essere un creativo, con risultati a volte scoraggianti, spesso frutto di una carenza di cultura che scambia la possibilità con la capacità di fare. Non a caso, esperimenti più titolati negli Stati Uniti come LogoMyway selezionano gli autori sulla base della presentazione di un portfolio di lavori.
La seconda considerazione è la quieta disperazione di una grande massa di creativi, alcuni davvero esperti, che pur di sbarcare il lunario è disponibile a concorrere per l’assegnazione di un budget di 250 euro elaborando anche una ventina di proposte perchè evidentemente è meglio concorrere per questo che restare a guardare il soffitto, obbedendo in questo all’invito della nostra ministra di non esser troppo choosy.

Choosy ..
La terza considerazione, leggendo i briefing proposti dai clienti, è che non esista la cultura aziendale della comunicazione: tra tutti i contest esaminati solamente uno chiariva esattamente i termini, le modalità, le aspirazioni e i bisogni dell’azienda: gli altri si limitavano a generiche richieste di intervento senza nessun riferimento, dei volatili “vogliamo essere diversi, energici, trendy ma classici, bianchi ma neri, tondi ma quadrati, ci fidiamo di voi”.
Piccole aziende spaventate dal rapporto con un consulente? Medie aziende che non si sentono in grado di dialogare con una struttura, strutture troppo chiuse, troppo costose o troppo difficili da approcciare per un cliente che non può formarsi culturalmente se non ha modo di frequentare il mondo della comunicazione e si trova alla fine stretto nella logica del “mi piace/non mi piace”?
Al di là dell’indubbio valore del portale, che se non altro offre la possibilità di concorrere alla pari a decine e decine di talenti, la sensazione finale è quella, un po’ triste, che la creatività, l’energia, la voglia di creare e pensare, in tempi di crisi, vadno presi così: un tanto al chilo. pardon, un tanto al byte.